sabato 19 maggio 2012

Violenza mafiosa, connivenza statale e “presidi di civiltà”

L'ultimo giorno settimanale di scuola, per una studentessa brindisina è stato l'ultimo di vita. Proprio mentre nella penisola si rincorrono iniziative e carovane itineranti che la percorrono in memoria delle vittime della mafia, proprio mentre tante persone partecipano a giornate dedicate al ricordo e all’impegno di chi, a scapito della propria vita, ha lottato e lotta contro quel male che attanaglia il Paese ormai da troppo tempo, gli assassini – indeboliti ed emarginati – tentano di fare strage di giovani corpi e menti fertili. Anche oggi, constatiamo che la violenza è di casa in mezzo a noi. I servizi segreti interni dello Stato italiano, buoni ad "infiltrare" ogni aggregazione sociale ed a controllare i movimenti politici e gli organismi rivendicativi dei diritti di cittadinanza, dove sono, cosa fanno per arrestare la militarizzazione mafiosa del territorio ?
I giovani acquistano libri di testimonianza sulle criminalità organizzate, si informano su storie che raccontano delle vittime e sulle testimonianze e sulle inchieste della magistratua, si interessano a quanto “narra” Saviano in televisione e nei suoi libri. Gli assassini cercano di arrestare questa presa di coscienza di massa, terrorizzando ed annichilendo l'eroicità di comportamenti semplicemente civili. Tutto il dolore, le sofferenze inferte al corpo sociale sano e reattivo rischiano d'essere dimenticati se queste ferite profonde non saranno lenite da cambiamenti irreversibili e da “presidi di civiltà” in grado di tutelare le vite. Diffondere, anche in altri territori regionali, la consapevolezza di quello che la criminalità organizzata significa e causa, per annullare l’ignoranza e il silenzio che spesso ammantano la questione, va inventata una nuova socialità, un modo concreto ed originale di stare insieme. Come leggiamo in “La Mafia Imprenditrice. Dalla Calabria al centro dell'Inferno” di Pino Arlacchi (Nuova edizione. Il Saggiatore, Milano, 2007) “la trasformazione della cultura e dell’ideologia del mafioso conseguente al suo inserimento nei gangli più importanti della vita economica permette al suo «stile di vita» di presentarsi come modello da emulare presso le categorie sociali – come gli studenti universitari o i giovani disoccupati – caratterizzate da un forte squilibrio tra le aspirazioni fissate dal loro livello di istruzione e dalla loro subcultura e il loro presente livello di reddito. Il crollo della inibizione e regolazione statale della violenza unito alla cultura individualistica, consumistica e competitiva tipica delle aree mafiose, ha provocato inoltre una perdita del prestigio relativo di quelle professioni e mansioni burocratiche che solo 15-20 anni fa costituivano i massimi obiettivi della mobilità sociale dal basso nell’Italia meridionale. Sarebbe altrimenti difficile spiegare la crescente quantità di impiegati, avvocati, insegnanti, medici e perfino magistrati che rompono con la stabilità e la legalità della loro professione per confluire tutti nel grande calderone dell’accumulazione mafiosa”. Queste verità se non incontrano la forza di contrasto di anticorpi culturali - una scuola mai nozionistica ed in grado di raccordarsi efficacemente con il mondo del lavoro e con il diritti di cittadinanza – e “città educative” come luoghi in grado di far emergere un immaginario alternativo, i parassiti che che si nutrono di silenzio e indifferenza, oltre che di sangue, avranno la meglio. Il pensiero degli adulti tutti – genitori ed educatori - va rivolto costantemente al mondo dei bambini e degli adolescenti, vittime due volte (ricordiamo il piccolo Giuseppe Di Matteo, rapito e ucciso quando era appena tredicenne, e Giuseppe Letizia, il pastorello dodicenne che assistette all’omicidio di Placido Rizzotto e che morì in circostanze oscure) di chi li uccide nel corpo e di chi nella mente.
I coetanei delle vittime di criminalità organizzata di oggi devono essere educati, quindi, al rigetto della subcultura mafiosa. Questo è il compito degli adulti che vogliono “città educative” “forti”, in questi tempi di svalorizzazione della vita umana, trasversalmente contagiosi sia tra le pareti domestiche come nelle pieghe della società. Il tasso di atteggiamenti “violenti” è ormai così alto da rappresentare una mina vagante, pronta ad esplodere appena il detonatore azzeccato dà la stura al peggio che peraltro è già in circolazione, non solo sotto la cenere e dietro le quinte. Esempi recenti: gli scontri che si innescano attorno al mondo del calcio nel quale confluiscono tensioni, pruriti, scompensi. Aprendo gli occhi, l’elenco si fa crudo e lungo: il bullismo, lo stupro, la discriminazione, il razzismo. Non si può che guardare all'altra faccia della medaglia: le reazioni determinate dei giovani, che a Locri hanno preso posizione pubblicamente contro il dilagare della brutalità mafiosa, in grado di insanguinare le strade con una sfacciataggine crudele ed atroce. Immagini positive, emblematiche, ma anche spiazzanti per quei “presidi di civiltà” (nuclei famigliari, scuola, Amministrazioni pubbliche) che sembrano voltarsi dall'altra parte parlando d'altro lasciando che la “globalizzazione” sia vissuta anche in Italia come il “quotidiano” è vissuto in Afghanistan e dimenticando – con estrema leggerezza – il diritto alla vita di tutte le generazioni prossime.

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