sabato 22 maggio 2010

Il Welfare delle conoscenze - Il pensiero di OSCAR MARCHISIO: Le “catastrofi” come strumenti della politica, anzi come “eventi” per la bio-politica


L’inverno tra il 2000 ed il 2001 si manifesta la “mucca pazza” e nel febbraio del 2001 al culmine della pandemia si abbattono 180 000 capi ma questo non evita il rischio, infatti l’encefalite spongiforme bovina si può trasmettere all’uomo con risultati mortali.
La “mucca pazza” è l’espressione di una violenta trasformazione del ciclo dell’allevamento degli animali, infatti abbiamo trasformato gli erbivori in carnivori, infatti le mucche sono alimentate con farine animali, sono avvelenate da noi stessi che le nutriamo come se fossero in ospedale. Oggi l’allevamento è una patologia controllata con antibiotici, ormoni, vitamine, auxinici, appetizzanti, antiparassitari, urea, chemioterapici per cui le stalle sono veri e propri ospedali e di conseguenza fucine di malattie. Dopo la “mucca pazza” abbiamo nella primavera del 2003 la Sars con 263 morti e 2117 ricoverati.
Si palesa ad Hong Kong dove ci furono 676 ricoveri e ben 109 morti, derivante dalla densità abitativa ed immediatamente si diffuse oltre che in Cina anche in Canada e negli Usa, grazie alla interconnessione aerea che rese il globo un “villaggio”.
Come si disse allora, anche il virus sa prendere l’aereo e sa diffondersi rapidamente in tutto il globo. Così anche ora il virus del maiale è pronto a diffondersi rapidamente dal Messico utilizzando i mezzi di trasporto e diventando subito “globale”. Le pandemie sono diventate frequenti, “mucca pazza”, “sars”, adesso “l’influenza suina” che nata in Messico è subito arrivata a New York, seguendo la strada dell’emigrazione, trasformandosi così in eventi mediatici orientati alla “sicurezza” e al “controllo”. Cosa c’è di più facile che una “catastrofe” per calmare i conflitti di classe ed invocare la “conciliazione” nazionale? Addirittura nel caso italiano oltre all’influenza suina abbiamo avuto anche un “opportuno” terremoto che è diventato il “set teatrale” di Berlusca per impacchettare la “resistenza” in una “festa della conciliazione”, di spirituale afflato, capace di “imbalsamare” i conflitti proprio nel momento in cui vi è una profonda instabilità sociale. Sia con la Sars che con Katrina appare la macchina militare come il diretto gestore del territorio, ed anche con il terremoto in Abruzzo si inizia a manifestare “un’azione diretta” della protezione Civile che diventa la “longa manus” del presidente del Consiglio bypassando il Parlamento ma anche la sua stessa maggioranza e il suo governo. La novità, la differenza di stile va colta soprattutto nell’emergere di un paradigma dei soccorsi e della funzione “tecnica” militare e civile in presa diretta nella politica e nella gestione delle “catastrofi”. Infatti è con la Sars e con Katrina che si pone la novità del nuovo ruolo del dispositivo “militare” come vettore olistico della funzione capitalista. Le guerre “dichiarate” infatti pur nella novità della loro immagine di vettori “politici”, (si fa la guerra per esportare la democrazia!), hanno un loro canovaccio ed un loro iter teatrale abbastanza definito mentre con l’emergere delle “catastrofi” si delinea un ruolo assolutamente nuovo ed interessante della macchina militare tout-court come macchina bio-politica. Bio-politica appunto perché comanda direttamente sul corpo, sui “corpi” senza mediazioni se non la “violenza” amministrativa.
Si può dire che le catastrofi svelano, rendano manifesti le criticità del sistema capitalista, mettano a nudo i corpi, obbligando ad un rapporto diretto fra violenza e corpo sociale. Se l’accelerazione delle catastrofi con l’epidemie, i cosidetti disastri naturali come tifoni e tsunami sta creando un’economia delle crisi con annesse connessioni con l’assicurazione, le spese sanitarie, le spese logistiche e militari e il costituirsi di un nuovo segmento di professioni e attività sotto forma di ong e varie altre forme legali non profit, tale scenario esprime in maniera assolutamente inedita la traduzione in qualità, addirittura in qualità fisica della natura la violenta crescita quantitativa del capitalismo. Tale situazione delinea un ruolo ad alcune figure tecniche coma la “protezione civile” che diventano arbitrari e garanti della sicurezza e del territorio, espellendo di fatto la “burocrazia politica” dall’arena della “gestione crisi”.
Abbiamo sostanzialmente con il configurarsi di un settore economico delle catastrofi, l’emergere di una risposta autopropulsiva della crisi capitalista classica che invece di svelarsi sotto le forme economico-sociali, diciamo tipo crisi del ’29, si manifesta come nuova geografia delle catastrofi. È evidente come l’acutizzarsi di un ciclo auto-petrolio con il profilarsi del picco della produzione petrolifera attorno al 2030 rappresenta la manifestazione più profonda della macchina capitalista nella sussunzione del ciclo biologico e addirittura geologico. La trasformazione della “terra” come risultato dell’estrazione del petrolio, nasce e generato dall’asse centrale della fabbricazione capitalista cioè dal ciclo auto-petrolio e proprio da questo dispositivo centrale si alimenta la trasformazione fisica sia della “terra” sia del clima. Inoltre con l’entrata in campo dentro a questo modello di sviluppo della Cina e dell’India la dimensione quantitativa della normale crescita capitalista tocca i limiti fisici del globo ed è per questo che per la prima volta le reazioni di crisi si manifestano invece che come crisi sociali anche nella forma di catastrofi. Diciamo che la forma collettiva, la forma della sfera pubblica diventa la catastrofe. Nell’epidemia, nella crisi virale, nel tifone e altro riemerge il sociale nella sua forma pura, ritorna ancorché deformato dal livello della sussunzione capitalista la struttura della natura e la sua declinazione “sociale”.
A New Orleans piuttosto che nello Sri Lanka la devastazione “naturale” ha portato, in primo piano, la nuda struttura sociale del capitalismo senza la mediazione della politica tradizionale, per cui si apre un enorme gap tra evento sociale e comando della politica e lì si inserisce il nuovo gioco del “dispositivo militare” come teatro bio-politico. Allenato dall’esperienza dalla Bosnia all’Afghanistan, dal Kossovo al Kuwait l’esercito diventa soggetto politico capace di mediare il corpo sociale affrontando direttamente il comando bypassando la rete dei politici tradizionali. In questo sta anche la trasformazione dello scenario urbano, si modifica la geografia urbana dato che con le catastrofi e con le epidemie torna con prepotenza la realtà collettiva, saltano gli steccati della proprietà privata, salta la configurazione basata su mercato e proprietà. Questo riemergere del collettivo e dei problemi della dimensione pubblica come ad esempio con la Sars che mette in ginocchio l’approccio sanitario cinese, basata sul modello americano della sanità privatizzata, diventano eversivi rispetto al comando capitalista che di fronte ad una catastrofe come Katrina lo Stato americano sia obbligato a presentarsi con la Guardia Civile, cioè con la stessa faccia utilizzata in Iraq, la dice lunga sulla nuova configurazione dello Stato e sulle nuove forme di crisi.
Nel momento in cui lo sviluppo del capitalismo tocca il limiti fisici della terra, forse le catastrofi diventano la forma crisi del capitalismo, ovvero i “buchi” neri dove si accumulano l’energia e la crisi del capitalismo stesso. La gestione “tecnica” della crisi da parte dell’esercito o della Protezione civile modifica la “costituzione materiale”, imponendo di fatto una nuova gestione “bio-politica”, con il controllo diretto del territorio e degli umani esautorando, per motovi “tecnici” appunto la burocrazia “politica” eletta, considerandola inetta, superflua e lenta.
Proprio nel momento in cui si appropria della festa della resistenza trasformandola nella “festa della conciliazione”, Berlusca sta modificando la “costituzione materiale”, anticipando lo scioglimento delle Camere, inutili e costose, con un “efficiente sistema” di Protezione Civile che agisce “chirurgicamente” sul corpo sociale e garantisce “efficienza e comportamenti subalterni”.
Questo è l’allenamento sulle aree di crisi, sulle catastrofi dove l’azione diretta e la “macchina” privata del Presidente possono agire, preparandosi alle soluzioni dirette e al comando tramite “protezione civile” su tutto il, territorio che diventerà così la nuova “bio-politica”, il nuovo “fascismo discreto” e politicamente “corretto”.
Oscar Marchisio

Welfare delle conoscenze - Il pensiero di OSCAR MARCHISIO: Dalla crisi si esce “smontando” la logica del capitale


La forma della valorizzazione richiede sia nella fase di produzione, sia in quella del consumo sia in quella nuova, geneticamente nuova dello smontaggio, delle modalità costitutive che contraddicono alcune delle attuali morfologie della proprietà privata. Da questa discrasia nasce una fase di instabilità che sta determinando le rotture e collisioni delle diverse “zolle capitalistiche”. Tali eventi possono provocare a seconda delle tensioni in atto “terremoti sociali”, “orogenesi economiche”, “faglie tecnologiche”, ovvero la dinamica delle varie azioni e reazioni determina una trasformazione, una convergenza o una divergenza rispetto alle varie piattaforme economico-sociali. Il ciclo produzione-consumo-smontaggio non più recepito completamente dalla forma della proprietà privata potrà eruttare con differenti modalità e configurazioni a seconda della geografia dei suoi margini. Nel caso della produzione è evidente che il telelavoro modifica il concetto spaziale d’impresa, il recinto della proprietà privata manifatturiera, con la necessità di ridefinire lo spazio pubblico/privato, il privato/privato, mette insomma in discussione una delle forme sociali base del processo di valorizzazione: la fabbrica. Nel caso del consumo abbiamo poi la forma più evidente di crisi, infatti proprio il simbolo stesso della forma del consumo capitalistico è in crisi: l’auto.
La proprietà privata dell’auto nega se stessa quando impedisce le funzioni chiave per cui è stata realizzata ovvero la libertà e l’autonomia. È nella forma del consumo la crisi più profonda, in quanto si è esaurita una delle modalità più tradizionali di proprietà e cioè quella della “scatola di lamiera” chiamata auto. La proprietà privata dell’auto nega la possibilità di consumo per il singolo proprietario, ovvero la quantità dei proprietari annulla la qualità delle sue prerogative. Ah il buon vecchio Marx, e soprattutto il rivoluzionario, come sempre, capitalismo. L’auto è l’emblema della crisi del rapporto fra proprietà e sviluppo capitalistico anche per quanto attiene la nuova fase della valorizzazione, una fase geneticamente nuova dall’angolo manifatturiero, intesa come ciclo dello smontaggio. Qui si apre un capitolo strategico che attiene a quella che potremmo chiamare la s-valorizzazione o ri-valorizzazione del prodotto/merce attraverso il suo smontaggio. L’analisi marxiana aveva messo a fuoco principalmente il processo costitutivo non la de-costruzione, mentre il capitalismo dovrà imboccare decisamente la determinazione industriale dello smontaggio. La “memoria dei materiali” diventa il luogo dove si incrociano due grandi cicli dello sviluppo delle forze produttive, da un lato la retificazione e dall’altro l’industrializzazione dello smontaggio. Oggi siamo giunti alla soglia di questo incrocio, come attraversarlo dipende da noi. Dipende dai soggetti sociali se trasformare questo incrocio in un tragitto di liberazione o una via al vincolo perenne. Rete e smontaggio sono le premesse tecno-produttive per una radicale messa in crisi dell’attuale assetto proprietario: si tratta di interpretare chi trasformerà i vincoli in opportunità.
La lettura di queste aree di crisi diventa quindi il contesto entro cui cogliere il costituirsi di identità nuove, capaci di coniugare la globalità nell’azione locale. Ripassiamo i luoghi dove si percepisce la tensione fra i margini e da questa lettura intravediamo le forme possibili dello sviluppo capitalista e del suo possibile pro-antagonista. Infatti la capacità di intervento sulle reti e sulle montagne di cose che ci circondano è sempre più bassa e sempre più ampio, drammaticamente vasto il gap fra decisioni e tecno-struttura. Il pericolo non viene tanto dal gap smisurato, quanto dall’inesistente rappresentazione del problema. Non c’è nessuna rivendicazione, nessun movimento, nessuna domanda di democrazia delle cose. Tutto è ancora affidato ad una visione funzionale ed astratta della scienza e della sua applicazione, basata sulla separazione degli ambiti, agli scienziati la natura, ai politici la società. Ci avvolgono reti, cablature e sistemi wireless, ci sovrastano reti di trasporto e cicli del petrolio e della chimica, ci allagano la vita milioni di auto e di televisori, galleggia su un mare di rifiuti dalla sconfinata profondità la nostra isola del consumo. È ora di aprire la democrazia alle cose, è ora di aprire il lavoro di riprogettazione collettiva delle forme oggettuali, delle interfaccia mediatiche e delle tipologie veicolari. Quanto interviene il ceto politico sulla memoria dei materiali? Poco o meglio nulla, mentre petrolio e plastica deformano pesantemente la nostra vita quotidiana. Quanto intervengono i cittadini sull’emissioni nocive e sui veleni nella nostra atmosfera? Poco o nulla, in ogni caso solo dopo l’emissione, nascono sforzi volti a contenere e a tamponare, non a progettare. C’è un gap radicale, una discrasia sottile e profondissima, una frattura totale fra sistema tecno-scientifico e decisioni. Mancano le parole per descrivere tale profonda jattura fra gli effetti continui e pervadenti del sapere “morto” e l’atomizzazione del “sapere vivo”.
Basta per tutti gli altri problemi il contrasto esponenziale fra le risorse immense alimentate ogni anno per produrre 38 o 40 milioni di automobili e la vana e superficiale azione dei sindaci e degli amministratori rivolta ad arginare ex post questa valanga di lamiera e stupidità con qualche inconcludente brandello di corsie preferenziali. È evidente che di deve spostare la democrazia sulla progettazione della mobilità, piuttosto che confinare la democrazia a discutere di effetti alla cui cause non è mai invitata a partecipare. Ma oggi si apre un una crisi per molti prodotti il cui valore d’uso è negato dal loro stesso volume quantitativo. La crescita quantitativa si trasforma in cambiamento qualitativo delle funzionalità, per cui il sistema stesso è obbligato a ripensarsi. Nel 1961 c’erano in Italia 6 milioni di auto, oggi ne girano 32 milioni per le strade italiane,crescita dell’ordine di cinque volte. Non potranno essere 150 milioni nel 2020, per cui è evidente che si deve trasformare l’apparato produttivo che si è modellato su tale crescita. Sarebbe folle accettare tale dimensione tra produzione e crescita, ma questa relazione va ripensata e rimodellata su altri prodotti e servizi, trascinati dalle nuove funzioni per la mobilità. Proprio la stasi dell'auto è il simbolo eloquente di questa dilemma fra bisogni e produzione ,infatti, per la prima volta, la proprietà privata non risponde allo sviluppo. In tale vuoto naviga la macchina politica, sospesa fra vincoli non decisi e problemi da affrontare. O meglio scivola sempre sugli effetti enormi di processi non decisi, ma subiti.
È fra questi processi ne è apparso uno finalmente contraddittorio con il suo stesso fine e cioè lo sviluppo mondiale delle reti. Si attrezza con la ‘retificazione’ del pianeta la prima grande opportunità di navigare non fra le reti ma fra vincoli tecnologici e democrazia. Si può finalmente spostare il tema del potere dal Palazzo d’Inverno all’Inverno. Con l’avvento della seconda pelle digitale attorno al globo si manifesta per la prima volta la forma dell’intelligenza collettiva sotto le specie fisico-tecniche, per cui il ciclo dalla produzione al consumo sino al riciclaggio può essere veicolato attraverso questo “cyber general intellect”. Si dipana lo svolgersi della forma tecnica dell’intelligenza collettiva, per la prima volta nella storia dell’umanità, attraverso una rete che esprimendo direttamente i rapporti fra gli uomini pone le basi per l’esplosione del feticcio della merce.
L’attuale dispositivo della proprietà privata emerge sicuramente come un vincolo per il completo sviluppo delle forze produttive rappresentate dalle reti, infatti l’immane sforzo volto alla difesa del copyright del software è la prova palpabile della sua debolezza. Altre sono le forme dello sviluppo, altra è la rappresentazione della democrazia che l'attuale dilatazione delle reti rende possibile e proponibile. Compito del soggetto sociale è trasformare questo spazio opaco, questo luogo paludoso derivante dalla squartata immagine del mondo in un civile percorso per aprire la porta alla democrazia attraverso le cose, per far emergere la comunità implosa nella attuale groviglio tecnologico. I percorsi, quindi, delle forme rivoluzionarie non saranno giacobine e da ghigliottina, ma fluiranno come marea attraverso i pori della rete spalancando attraverso la noosfera i dispositivi di olografia sociale, atti alla democrazia diretta. Infatti le figure della valorizzazione, sia nella fase di produzione, sia in quella nuova, geneticamente nuova dello smontaggio, reclamano delle modalità costitutive che contraddicono alcune delle attuali morfologie della proprietà privata. Da questa discrasia nasce una fase di instabilità che sta determinando le rotture e collisioni delle diverse “zolle capitalistiche”. Tali eventi possono provocare a seconda delle tensioni in atto “terremoti sociali”, “orogenesi economiche”, “faglie tecnologiche”, ovvero la dinamica delle varie azioni e reazioni determina una trasformazione, una convergenza o una divergenza rispetto alle varie piattaforme economico-sociali. “D’altro canto, il socialismo stesso sarà importante semplicemente perchè condurra all’individualismo”1, così Oscar Wilde sottolinea l’obiettivo centrale del socialismo come realizzazione dell’individualità rispetto ai vincoli della proprietà privata. Vorremmo dire che più che bloccare lo sviluppo del socialismo l’attuale contesto della proprietà privata sta diventando un limite per il pieno sviluppo del capitalismo ovvero il processo di valorizzazione trova le barriere proprio nella forma in cui si esprime il dispositivo di comando insito nella proprietà privata. Ci troviamo nella situazione che lo spazio “politico” del castello feudale esprimeva rispetto alla formazione delle reti del sapere e del commercio dei liberi comuni. Infatti la diatriba Mercato/Stato in cui si esprime il dibattito politico rispetto anche al tema delle reti esclude completamente la novità della situazione, cioè lo sviluppo autonomo della socialità. Sia destra che sinistra usano le categorie del “castello” per acchiappare una realtà che ne sta fuori. Qui sta l’arcano della completa obsolescenza di numerose “maschere” politiche attuali, cioè l’insorgenza della socialità come luogo in cui i valori d’uso possono incontrarsi fra attori sociali invece che essere scambiati. Vi sono le premesse attraverso la rettificazione globale (wireless o no, poco importa) per cui il rapporto relativo all’uso e soprattutto allo smontaggio dei prodotti venga regolato attraverso un “colloquio” fra produttori. O meglio spingendo al massimo le possibilità di “produttività collettiva” determinate dalle rete si imballa l’attuale motore politico e si aprono le possibili forme di “autovalorizzazione” del lavoro sempre create e nascoste dal processo capitalistico. La forma esplicita quindi di una compiuta democrazia richiesta dall’attuale potenzialità delle forze produttive è quella dell’ologramma, cioè di un dispositivo “politico” dove da ogni punto del sistema si possa vedere ed interagire con tutti gli altri. Questo è il livello da progettare per rispondere all’attuale innovazione rivoluzionaria del processo capitalistico, mentre il ceto politico, agente conservatore parla di presidenzialismo più o meno “italico” come nuova formula di guida fra globalizzazione e reti. Si apre una fase costituente da parte dei soggetti sociali che pone la possibile traduzione della rete da tecno-oligarchia in tecno-democrazia, da potere mediatico in “Cyber-soviet”.
Oscar Marchisio

Moto perpetuo


"Cosa desidero ? Spalmarmi su di te, farti sentire tutto il calore che generi in me. Penso a Parigi, porterò i miei colori, è tanto che non li uso più. Felice ! In moto perpetuo è dentro di me e profuma di mare. Tuo"

Io, Giovanni Dursi, Docente MIUR a tempo indeterminato di Filosofia e Scienze sociali, contesto la Circolare inviata dal Direttore dell'Ufficio scolastico regionale dell'Emilia Romagna, Marcello Limina, ai Dirigenti scolastici degli Istituti scolastici autonomi, per richiamarli sulla necessità di invitare i docenti a contenere manifestazioni critiche, a mezzo stampa, talvolta "con toni esasperati e denigratori", facendo appello ad una serie di normative che impongono agli impiegati pubblici di astenersi da dichiarazioni lesive nei confronti della propria amministrazione. Contesto la cultura censoria che ispira la Circolare, negando i diritti costituzionali. Ritengo la Circolare un grave atto intimidatorio di stampo fascista che mette in pericolo la libertà di espressione. Protesto, in particolare, per l'invito del Direttore dell'USR - E. R. di "sensibilizzare il personale scolastico" al fine di convincerlo ad "astenersi da dichiarazioni o enunciazioni che in qualche modo possano ledere l'immagine dell'amministrazione pubblica". Mi permetterò di "criticare" sempre e, quando lo riterrò opportuno, l'operato del Governo attuale e del MIUR, nello specifico, in tutte le forme pubbliche possibili. Mi batterò per ribaltare la concezione autoritaria e "preventivamente" repressiva della Circolare nella quale si cita anche l'art. 494 del d.lgs. 297/94, attraverso cui si sancisce di comminare verso il personale docente "sanzioni disciplinari per atti non conformi alla responsabilità, ai doveri e alla correttezza inerente alla funzione". Questo Direttore USR - E. R. deve dimettersi per l'operazione inquisitorio-poliziesca alla quale induce i Dirigenti scolastici del suo territorio intimando loro di "ricordare al personale scolastico che è improprio indirizzare ad alte autorità politiche o amministrative diverse dal loro diretto riferimento gerarchico documenti, appelli o richieste". Dichiaro completa solidarietà ai colleghi e personale A.T.A. del Liceo classico 'Muratori' di Modena che, riuniti fuori scuola, hanno approvato una mozione contro il "carattere intimidatorio della circolare" appellandosi all'art. 21 della Costituzione in base al quale è lecito manifestare il proprio pensiero. Ancora una volta i cittadini capaci di critica dimostrano che si può "violare" la norma (come nel caso della "Direttiva Maroni" sull'ordine pubblico) e, contestualmente, rispettare la Costituzione. Chedo anche io le immediate dimissioni del Dirigente ministeriale che ha firmato la Circolare, respingo il tentativo di rivolgersi in questo modo ai Dirigenti scolastici, e quindi al personale della scuola, minacciando "sanzioni per i non allineati" e invitandoli "a farsi meri esecutori di direttive che ledono i diritti degli insegnanti e del personale A. T. A.". Annuncio, infine, che utilizzerò tutti gli strumenti sindacali, politici e di comunicazione sociale (comprese le lezioni), come la Costituzione e il diritto del lavoro mi consentono, per oppormi a questo genere di indicazioni che sono vessatorie e gravissime per la libertà di tutti i cittadini. Ora e sempre resistenza. Giovanni Dursi

Certa politologia al servizio del massacro sociale

Certa politologia (in questo caso mi riferisco all'editoriale di Angelo Panebianco “La fine del socialismo della spesa” sul Corriere della sera il 18 u. s. in edicola) con il gusto per il dettaglio estrapolato ad arte per compiacere l'ansia consumistica apprenditiva dell'audience giornalistica, sembra considerare i lettori bisognosi solo di comode sintesi, non di documentata analisi, da usare come slogans spendibili nei dibattiti da bar sport. Per questa scuola di pensiero, la “nuda verità” va evitata, come del resto il bigotto, integralista cattolico Buttiglione va sostenendo, poiché le verità vanno “pudicamente vestite”. Panebianco sostiene che il peculiare welfare europeo non è altro che un “costoso sistema pubblico” di protezione sociale che la crisi economica attuale si incarica di cancellare. Il politologo dell'Ateneo bolognese conviene sulla inevitabilità di un “ridimensionamento” dei sistemi di welfare e – questo è puro baccano politico-mediatico -, quindi, sul definitivo accantonamento in soffitta del “socialismo, in tutte le sue diverse sfumature e varianti”. Panebianco, guardando la foresta, vede una somma di singoli alberi. Pensa all'epifenomeno craxista confondendolo per "socialismo". Consiglio al docente, un'utile rilettura estiva de “Dialektik der Natur” per evitare di cadere nuovamente nel doppio errore (il primo, insito nell'idealismo) di utilizzare le conoscenze come pretesti per fornire un'interpretazione globale della realtà e (il secondo errore insito nel materialismo volgare ) di voler liberare la conoscenza dai pregiudizi speculativi in virtù di uno neoscientismo sociale che pensa di poter fare a meno anche d'una dose minima di empirismo. Refrattario alla “dialettica materialistica” come “metodo scientifico” per fare ricognizione seria della realtà storico-sociale, Panebianco finisce per presentare il socialismo politico e sindacale novecentesco solo come artefice della dispendiosa espansione dei sistemi di welfare e, conseguentemente, beneficiario ultimo del consenso popolare sostenuto dalla spesa pubblica. La ridistribuzione della ricchezza socialmente prodotta (“l'accesso alle prestazioni sociali dello Stato”, scrive Panebianco) sarebbe la causa del deficit e d'una dilatazione dei “diritti” (l'autore dell'editoriale, infastidito, attribuisce al lessico socialista l'abominio dei diritti che rinvia ad un principio di uguaglianza). Poiché siamo in presenza di “scarsità di risorse”, oggi il socialismo – considerato il bancomat del popolo bisognoso di prestazioni - “finisce per perdere gran parte della sua ragione sociale”, questa la conclusione del politologo. In realtà, questa suggestiva quanto parziale ricostruzione della mission socialista (la fenomenologia socialista, nelle variegate esperienze d'organizzazione sociale collettivistica, comprende tanto il “luddismo” - pur interprete d'una mentalità arcaica e preindustriale – quanto i soviet russi fino al '24, per giungere alla rivoluzione culturale maoista ed alla tutt'ora resistente Cuba) è comoda argomentazione per sostenere la tesi della necessità dello smantellamento del welfare “istituzionale-redistributivo” in grado di fornire servizi di tipo universalistico al di fuori del mercato, sulla base del bisogno puro e semplice, constatata una persistenza della povertà indotta dal capitalismo (altro che socialismo spendaccione) che mette in luce l'incapacità del mercato di realizzare un'allocazione di servizi alla persona ed alla comunità tali da raggiungere tutti gli strati sociali subalterni. In realtà, Panebianco dichiara la sua preferenza per i sostenitori del welfare austerity, la versione attuale del modello “residuale” che vede attivare interventi di protezione ex-post solo quando i canali naturali e tradizionali di soddisfacimento dei bisogni (nuclei familiari, reti ed imprese sociali) non siano stati in grado di far fronte a determinate esigenze; in altri termini, insegnare ai cittadini come fare a meno del welfare, come i “conservatori” sanno fare “per cultura politica e insediamenti elettorali” (sostiene Panebianco). Traduco: perseguire il massacro sociale subordinando i principali meccanismi pubblici di distribuzione delle risorse alla logica clientelare complessiva che si vuole regolatrice del sistema politico della “democrazia reale” . Si teorizza, criminalizzando un ipotetico socialismo europeo, una pratica discriminatorio-corporativistico-clientelare, questa sì della spesa, spacciata per “difesa dei conti pubblici”. Per fortuna che il conflitto c'è, utile a spazzar via queste strategie foriere di dannose misure di politica sociale antipopolari e selettive ad esclusivo beneficio dei malfattori che tramano per mutamenti istituzionali e legislativi.

venerdì 21 maggio 2010

Questo governo deve cadere, questo stato non è il nostro


“Conti pubblici: il Governo taglia i redditi e accelera sullo smantellamento del welfare, inducendo sacrifici ulteriori ai dipendenti pubblici e pensionati”. Nel frattempo, altri due soldati italiani uccisi da un ordigno in Afghanistan. Questo, in sintesi, il quadro della situazione sociale e politica non solo italiana. Dalla turbolenta coazione della Grecia (debito del 115%), con le finanze pubbliche in evidente squilibrio riguardanti anche Portogallo (imposta straordinaria “anticrisi”) ed Irlanda (“risparmio” sui costi del welfare), alle direttive della Bce che determina i flussi di credito, alle manovre spagnole (tagli delle spese correnti e di assunzioni), inglesi ed italiane di riduzione del deficit che perferzionano il massacro sociale già in corso (disoccupazione, precarietà/flessibilità, tasse regionali) indistintamente lesivo delle condizioni materiali di vita dei circa 500 milioni cittadini europei. In sostanza, il “debito privato” della cosiddetta eurozona viene gestito dai Governi dell’UE come prioritaria questione del bilancio pubblico essendo l’architettura istituzionale europea tutt’uno con l’ortodossia monetaria ed organizzativo-aziendale delle forme sociali di vita. La dialettica Stato / Impresa trova in queste ore la sua storica riattualizzazione. Come non si può prescindere da questi determinati processi politici, così non si può evitare di considerare il conflitto sociale l’unico ambito ove disegnare un credibile orizzonte di giustizia sociale e poltica. Il paradigma del “potere dell’opinione pubblica” e del ruolo attivo della “società civile” non è utile per l’adeguata “lettura” della contraddizione, anzi consolida l’avviato processo di “medianizzazione” delle lotte sociali che autorizza redivive leadership totalitarie e/o democraticiste a “gestire” politico-sindacalmente il dissenso antistatuale, anestetizzandone il potenziale antagonistico ed antisistema. La difficoltà a riconoscere il conflitto, come unico terreno praticabile, poiché causa del “disordine” e manifestazione del “diritto di resistenza” all’incedre della “crisi”, sembra generare un’ossessiva ricerca di formule programmatiche e d’organizzazione dell’antagonismo che sia però compatibile con l’ordine costituito, quasi che livelli differenziati e contrapposti del “principio di legalità”, quasi che la “democrazia diretta” e la dualità degli interessi in gioco non siano una chiave di lettura efficace. Ed ecco il candidarsi di figure ecumeniche, in alcuni casi retoricamente in arnese, che non si avvedono (o non intendono prendere atto) di quella macchina performativa che sorregge uno spazio politico-giudiziario pubblico ove la dimensione dell’eccezione (la “crisi”) è già dentro l’ordinamento a difesa degli interessi “forti” del capitale; figure ecumeniche che non si accorgono o non deisiderano “vedere” che meccanismi derogatori e di correzione unilaterale della “democrazia” sono già attivi; figure ecumeniche “inconsapevoli” del fatto che, modificato il “senso” della giurisdizione, la “democrazia reale” ci consegna ad uno “stato di guerra”. Le moltitudini in rivolta, ferite nel corpo, sono sospinte da “grandi narrazioni” liberal-progressiste veicolate videocraticamente verso una “liquida” contemporaneità caratterizzata da astrazione/alienazione degli individui, dalla “scomparsa” del lavoro, dalla invisibilità della “questione sociale”. Ciò che compete all’insubordinazione sociale è – viceversa – l’autonomia collettiva politico-organizzativa contro le logiche del “feudalesimo funzionale” proprie dello Stato. Perché ricercare vanamente tutele statali, quando è possibile ricomporre il disomogeneo praticando la lotta di classe, come nel secondo dopoguerra, operando al di fuori della legislazione vigente, costruendo orizzontalità piuttosto che solidarismo interclassista, frutto deteriore del pragmatismo amministrativo del “ceto politico” dominante che mai potrà accordare autonomia alla dimensione organizzativa collettiva, atto lesivo della “pace sociale” ed irreversibile riconoscimento del ruolo politico devastante del conflitto.